IMMUNONUTRIZIONE (parte 2)

Eccoti la seconda parte dell’articolo: qui troverai il funzionamento dei meccanismi che consentono all’immunonutrizione di aiutarci a potenziare il nostro sistema immunitario.

Buona lettura e fammi sapere nei commenti cosa ne pensi.

LA RISPOSTA DI RISOLUZIONE

Giunti a questo punto, gli attori molecolari nella risposta di risoluzione cominciano ad essere chiari…

Per facilitarti il loro ingresso in scena, introduco un giroscopio particolare, un giroscopio biologico come questo che vedi qui in foto:

cominciamo con il fattore di trascrizione genica NF-kB che attiva l’infiammazione genica (sulla sinistra). NF-kB si può trovare in tutti i tipi di cellule ed è coinvolto in tutte le reazioni delle cellule agli stimoli, quali stress, citochine, radicali liberi, irradiazione con ultravioletti e attacco proveniente dagli antigeni di batteri o virus.

In posizione opposta troviamo AMPK (AMP chinasi) che non solo controbilancia NF-kB ma orchestra la riparazione.

Anche gli ormoni sono bilanciati: gli eicosanoidi derivati dall’acido arachidonico (acido grasso omega-6) producono una risposta infiammatoria controbilanciata da un altro gruppo di ormoni, le resolvine, la cui produzione è promossa dagli omega-3.

Abbiamo quindi quattro protagonisti della risposta di risoluzione che devono essere in equilibrio costante: questa è la descrizione molecolare del benessere e dobbiamo cercare di raggiungere questo equilibrio.

Se manca questo equilibrio, il giroscopio cade e la situazione degenera in una malattia cronica che può solo peggiorare.

Possiamo cominciare ad ottimizzare la risposta di risoluzione diventando consapevoli che sono 3 R che definiscono le fasi di tale risposta:

  • la prima è la riduzione dell’infiammazione indotta dalla dieta, cioè il carico di infiammazione derivante da ciò che mangiamo deve essere ridotto;
  • poi c’è la risoluzione dell’infiammazione residua rimasta nella cellula;
  • infine c’è il problema della riparazione del danno tissutale causato dall’infiammazione cellulare non risolta.

Tutto si svolge come come una staffetta molecolare: ogni partecipante alla staffetta deve passare il testimone al partecipante successivo per poter arrivare al traguardo, un traguardo che non è nient’altro che la guarigione.

Gli attivatori nutrizionali della risposta di risoluzione sono sempre più definiti chiaramente ora:

il primo è la dieta zona che non è una dieta per dimagrire o per ridurre l’infiammazione in termini generali… è una dieta ricca di omega-3, gli elementi costitutivi delle resolvine che ci aiutano nella lotta all’infiammazione; infine abbiamo i polifenoli.

Quindi dieta zona, acidi grassi omega-3, e polifenoli: insieme attivano quel fattore di trascrizione genica (AMP chinasi) che ci aiuta a raggiungere la guarigione.

Credo sia opportuno trattare un po’ più in dettaglio ognuno di questi tre elementi.

DIETA ZONA

Il primo attivatore è la dieta zona, una strategia alimentare che riduce l’infiammazione indotta da ciò che mangiamo.

Devi sapere che quando la dieta zona è nata, il suo obiettivo era semplicemente quello di ridurre il livello di infiammazione dell’organismo considerando le fonti dell’infiammazione generate dalla dieta:

  • eccesso di eicosanoidi derivanti da acidi grassi omega-6 e da alti livelli di insulina;
  • stress ossidativo eccessivo derivante dall’assunzione di troppe calorie;
  • infiammazione indotta da microorganismi presenti nell’intestino.

Queste sono fonti di infiammazione derivanti dall’alimentazione che fanno sì che questa infiammazione non si spenga, che sia impossibile guarirne.

Un primo motivo per cui possiamo definire la dieta zona una dieta antinfiammatoria è perché propone una limitazione delle calorie. Uno degli elementi chiave che aumenta l’infiammazione infatti, è un eccesso di calorie, non solo della giornata ma anche di ogni singolo pasto.

Inoltre la dieta zona possiede altre caratteristiche molto utili: ha livelli adeguati di proteine, è una dieta moderata nei carboidrati a basso carico glicemico, ha un basso tenore di grassi ma è ricca di fibre fermentabili, infine è ricca di polifenoli.

Tutto ciò conferisce alla dieta zona una struttura personalizzabile per ogni individuo che la rende adattabile a pressoché tutte le filosofie alimentari.

Una delle conseguenze che si determina se non si riduce l’infiammazione indotta dall’alimentazione, è lo sviluppo dell’insulino-resistenza, la manifestazione più comune dell’infiammazione indotta dall’alimentazione.

Per comprendere meglio, immagina la classica fontana dello champagne: ridurre l’infiammazione è importante perché la sua diffusione è come quella dello champagne che, debordando dal calice più in alto, scende a riempire tutti gli altri calici sottostanti.

Il primo livello di questa fontana corrisponde all’insulino-resistenza e, da questo punto, si può passare al secondo, terzo e quarto perché lo champagne trabocca.

Non è difficile immaginare il funzionamento di questa fontana, visibile in foto: quando l’insulino-resistenza si instaura e si aggrava, porta al diabete; quando il diabete si aggrava aumenta il rischio di malattie cardiovascolari e poi di problemi neurologici come il morbo di Alzheimer.

Ed è questo il motivo per cui, se una persona ha il diabete, ha quattro volte la probabilità di sviluppare cardiopatie e maggiore probabilità di sviluppare il morbo di Alzheimer.

Come avrai di certo compreso, tutto questo è innescato dalla resistenza insulinica iniziale.

La dieta zona contrasta proprio questa resistenza insulinica.

Quindi dobbiamo usare l’alimentazione per evitare di innescare l’insulino-resistenza e le sue conseguenze: cardiopatie, diabete, Alzheimer.

Fatto ciò, dobbiamo compiere il passo successivo: abbiamo bisogno delle resolvine, fondamentali per risolvere l’infiammazione cellulare.

E qui dobbiamo lasciare la scena agli acidi grassi omega-3.

OMEGA-3

Spesso pensiamo all’infiammazione come al fuoco di un camino acceso che prima o poi si spegnerà da solo.

Sono immagini poetiche che però traggono in inganno: l’infiammazione, una volta iniziata, continua a bruciare.

Magari con fiamme non molto vive, ma continua andare avanti fino a che non avremo delle resolvine che ci aiuteranno a spegnerla.

Questo è il motivo per cui il rapporto fra Acido Arachidonico (AA) e Acido Eicosapentaenoico (EPA) ci dice se siamo capaci, o fino a che punto siamo capaci, di estinguere le fiamme.

L’Acido Arachidonico (acido grasso omega-6) è l’elemento costitutivo degli eicosanoidi che sono alla base dell’infiammazione; l’altro acido grasso, che potremmo immaginare come il suo antagonista, è un acido grasso omega-3 a catena lunga (EPA, Acido Eicosapentaenoico) che favorisce, promuove la formazione di resolvine.

C’è bisogno di entrambi, ma il loro rapporto deve essere corretto.

L’equilibrio fra questi due acidi grassi è di importanza fondamentale perché il valore del loro rapporto ci fa capire se siamo in grado, come organismo, di risolvere l’infiammazione.

Più è alto il rapporto AA/EPA, minori saranno le nostre capacità di fronteggiare l’infiammazione; più è basso, meglio il nostro organismo sarà in grado di affrontarla.

Quali sono i vantaggi specifici di un rapporto AA/EPA basso?

Come anticipato, si affronta meglio l’infiammazione grazie alla riduzione dell’intensità della sua fase iniziale: non la si annulla, perché, come ho già detto, di un po’ di infiammazione ne abbiamo bisogno, ma se ne riduce l’intensità. A questo punto, con una intensità minore (che è quello a cui miriamo), possiamo accelerare la risoluzione dell’infiammazione che è quanto ci serve per poi andare alla fase successiva, quella della riparazione del tessuto danneggiato.

Andando a spulciare PubMed (il portale internazionale dei lavori di ricerca scientifica), si trova che il primo studio sull’utilizzo degli acidi grassi omega-3 ad alto dosaggio non aveva riguardato la riduzione del rapporto AA/EPA…

Eravamo nel 1989 e il New England Journal of Medicine presentava un articolo in cui ci si poneva quest’altra domanda:

gli acidi grassi omega-3 possono modificare i livelli di citochine?”.

Dai grafici delle ricerche si nota molto bene che nei soggetti chiamati “normali” (erano tutti americani) con un rapporto AA/EPA in realtà molto alto, dopo poche settimane di utilizzo di omega-3, questo rapporto si abbassava. Però in seguito all’interruzione dell’integrazione di omega-3, il rapporto ritornava a livelli elevati.

Perché tutto questo è importante (e ci può aiutare a capire qualcosa a proposito del COVID-19) ?

Perché questo rapporto AA/EPA aveva un effetto sulle citochine.

Le citochine sono i fattori principali della mortalità associata al COVID-19, e ne aumentano la letalità. Per cui, risolvere l’infiammazione, determina la riduzione di citochine.

Riducendo il rapporto AA/EPA, le citochine si riducono. Ma se si smette l’integrazione con omega-3, le citochine risalgono.

Ma come funzionano gli omega-3?

Gli omega-3 non hanno un impatto diretto sulla riduzione delle citochine. Riescono a ridurle perché sono i tramiti, gli elementi costitutivi delle resolvine, ormoni molto complessi con una stereochimica molto precisa.

Senza adeguate quantità di omega-3 (EPA e DHA) non è possibile produrre resolvine a livelli adeguati a spegnere e a disattivare l’infiammazione.

Formazione delle resolvine a partire da omega-3 (EPA e DHA) – Serhan Nature 510:92 (2014)

A questo punto, mi aspetto da te una domanda precisa: qual è la quantità necessaria di questi due acidi grassi per la risoluzione?

Dipende…

Dipende da quanto stiamo bene.

Supponiamo che un individuo stia bene, supponiamo che non abbia malattie croniche, che non abbia accumuli di grasso corporeo.

Per mantenere questo stato di benessere ci vorrebbero 2,5 grammi al giorno di omega-3.

Nel caso di una persona per cui bisogna trattare obesità, diabete, cardiopatie, allora il fabbisogno di EPA e DHA è superiore: circa 5g al giorno.

Ancora di più quando l’infiammazione è diffusa nel sistema neurologico con depressione, con ADHD con Parkinson, Alzheimer ecc…

In questi casi i livelli di EPA e DHA per ridurre adeguatamente l’infiammazione cronica sono ancora superiori, sono livelli elevati perché diventano livelli terapeutici, quelli necessari per abbassare il rapporto AA/EPA e ridurre l’intensità della risposta infiammatoria.

POLIFENOLI

La terza fase della risposta di risoluzione deriva dall’attivazione di un fattore di trascrizione genica: AMP chinasi (AMPK).

E in questo caso, il ruolo del protagonista è svolto dai polifenoli.

Sono sicuro che ne avrai sentito parlare come di quegli agenti chimici che danno colore a frutta e verdura…. Bene!

In realtà i polifenoli sono molto di più: rappresentano quei geni che attivano, che ci aiutano nella fase finale della guarigione grazie al loro impatto su AMPK.

L’AMPK è l’interruttore fondamentale per la riparazione tissutale.

È fondamentale anche per il nostro metabolismo.

Una volta che lo abbiamo attivato è come se potessimo portare indietro le lancette dell’orologio riuscendo così a controllare praticamente ogni aspetto del metabolismo: la sintesi dei lipidi, l’assorbimento di glucosio, la sintesi del colesterolo, del glicogeno, dell’rRNA ecc…

Tutta una serie di elementi sono sotto il controllo dell’AMP chinasi, come puoi rendertene conto tu stesso guardando la figura sottostante.

Hardie D. Grahame 2018 – AMP-activated protein kinase. J. R. Soc. Interface

Puoi immaginare AMPK come un elisir di nuova vita se viene attivato.

Per attivare la AMPK dobbiamo avere livelli adeguati di polifenoli.

È estrematamene importante attivare l’AMPK perché ripara il tessuto danneggiato, quindi guarisce, risana, rigenera.

E un ulteriore vantaggio non trascurabile, ovviamente, è che viviamo più a lungo.

Visto che non siamo nella fantascienza, suppongo che tu voglia delle prove…

Mi sembra giusto.

Abbiamo anche quelle.

Ci sono diversi studi infatti che hanno dimostrato questo.

Uno studio particolarmente interessante è addirittura tutto italiano (2013). Ci si chiedeva:

“se persone anziane consumano più polifenoli, vivono più a lungo?

Quando i ricercatori si sono posti questa domanda, hanno trovato dei risultati non molto interessanti all’inizio: in un primo momento infatti, non risultava esserci una relazione diretta fra la quantità di polifenoli consumati e la mortalità.

Sembrava che questo genere di studio non avesse senso.

Poi però i ricercatori ci hanno pensato un po’ meglio e hanno capito che non è tanto importante quanti polifenoli vengono consumati ma quanti ne arrivano nel sangue, un po’ come avviene per i farmaci.

È difficile misurare quanti polifenoli entrano nel sangue…

Ma si possono misurare nelle urine, come polifenoli escreti perché, per essere escreti tramite le urine, devono essere passati per forza nel sangue.

E, in effetti, analizzando i dati con questo ulteriore approccio di indagine, hanno visto la differenza.

Sono stati studiati gli anziani della zona del Chianti, in Toscana: avendo alti livelli di polifenoli nelle urine, quindi nel sangue, avevano una riduzione straordinaria della mortalità.

Questi sono risultati che i farmaci non riescono a raggiungere.

E questa riduzione della mortalità era ottenuta semplicemente aggiungendo (e assorbendo) più polifenoli attraverso la dieta.

Il problema però è che la maggior parte degli oltre 8000 tipi di polifenoli, sono insolubili e non arrivano nel circolo sanguigno.

Arrivano magari all’intestino aiutandolo a mantenersi in salute, però non arrivano al sangue.

Alcuni però, un numero limitato, possono essere assorbiti e questi polifenoli sono quelli che hanno il maggiore impatto termini di attivazione dell’AMPK.

Come accade tutto questo? Come sempre in Biologia, accade attraverso un’interrelazione molto complessa.

I polifenoli non attivano direttamente la AMPK: attivano un’altra serie di enzimi, i SIRT, e questi, a loro volta attivano LKB1 che poi attiva AMPK che, a questo punto, attiva un altro enzima che costituisce un substrato che ri-alimenta i SIRT.

Quindi, se noi riusciamo ad attivare i SIRT attraverso i polifenoli presenti in ciò che assumiamo con la dieta, diamo vita a un circolo virtuoso che si autoperpetua e che porta all’attivazione di AMPK.

In questo modo avremo una durata di vita in salute maggiore, con un rallentamento dell’invecchiamento.

Dr. Sears – AMPK: anti-viral drug.

Possiamo ora quindi parlare degli attivatori dietetici e nutrizionali dell’AMPK:

il primo è la restrizione calorica che è data dalla dieta zona, dieta che prevede una limitazione delle calorie, fattore che attiva l’AMPK;

poi abbiamo gli omega-3 che, attraverso le resolvine, possono attivare l’AMPK.

Gli attivatori più potenti però sono i polifenoli.

Utilizzando questo approccio integrato, riusciamo ad attivare l’AMPK.

A questo punto potremmo essere soddisfatti: abbiamo fatto tutto il necessario per mettere in moto i motori che ci possono portare alla guarigione e al benessere.

Devi però sapere che, come esistono gli attivatori, esistono anche degli inibitori nutrizionali dell’AMPK.

Quali sono?

Il primo inibitore è l’eccessivo consumo di calorie: troppe calorie disattivano proprio AMPK, spegnendola. Per fortuna è molto facile accorgersi se stiamo assumendo troppe calorie: ingrassiamo 🙂

Il secondo inibitore è l’eccesso di glucosio.

Un’alimentazione a basso carico glicemico e con bassi livelli di glucosio non inibisce l’AMPK e quindi non blocca una fase della risposta di risoluzione.

Come hai ben capito quindi, attivatori e inibitori nutrizionali di AMPK sono sotto il nostro controllo personale attraverso l’alimentazione.

Esistono marker nel sangue che ci aiutano a capire con dati oggettivi se abbiamo ottimizzato la risposta di risoluzione dell’organismo.

  • Il primo marker è rapporto tra trigliceridi / colesterolo HDL che è un marker di insulino-resistenza;
  • il secondo marker è il rapporto fra acido arachidonico (AA) ed acido eicosapentaenoico (EPA): ci dice qual è il livello di infiammazione cellulare;
  • il terzo marker è un marker spesso utilizzato nei diabetici ma qui viene utilizzato per vedere se c’è attivazione di AMPK ed è l’emoglobina glicata (HbA1c).

Solo quando tutti e tre i marker sono nei valori corretti possiamo dire di avere ottimizzato la risposta di risoluzione.

  • Trigliceridi/HDL minore di 1 corrisponde ad una bassa insulino-resistenza;
  • AA/EPA tra 1,5 e 3 corrisponde ad avere una sufficiente produzione di resolvine;
  • HbA1c tra 4,9 e 5,1 % significa che AMPK non è inibito.

Non è facile raggiungere questi livelli ed è per questo motivo che l’immunonutrizione è una scienza complessa, che richiede volontà.

Però, una volta che abbiamo ottimizzato la risposta di risoluzione, avremo fatto quanto possibile per ottimizzare anche la nostra capacità di contrastare le infiammazioni.

La riparazione tissutale richiede un approccio nutrizionale integrato.

Questo approccio sistemico, vale la pena ripeterlo, utilizza la dieta zona (che è una dieta antinfiammatoria), gli omega-3 e i polifenoli i quali hanno il ruolo di ottimizzare la risposta di risoluzione, cioè lo strumento principale per combattere un’infiammazione indotta da ciò che mangiamo.

Detto ciò, qual è il senso di tutto questo in relazione alla risposta di risoluzione nell’affrontare le infezioni virali, soprattutto la pandemia del COVID-19?

Abbiamo imparato che i trattamenti potenziali per infezioni virali sono pochi.

Uno è la quarantena che però determina un problema sociale e un danno all’economia. E qui in Italia conosciamo fin troppo bene le conseguenze di questo approccio. Credo che per più di qualcuno, la soluzione si è rivelata peggiore del male.

Il secondo può essere l’immunità di gregge, ossia fare in modo che un numero sufficiente di persone venga infettato dal virus sperando che ci siano abbastanza anticorpi da rendere difficile la vita al virus: siamo molto lontani dall’aver raggiunto l’immunità di gregge e, se mai ci arriveremo, ci vorranno 2-3 anni.

Si sente poi parlare degli agognati vaccini… I vaccini intanto sono difficili e molto rischiosi.

A volte hanno successo, a volte no.

Possono causare danni devastanti.

Ad oggi poi non esiste un vaccino nemmeno per il raffreddore comune che, nel suo piccolo, produce una certa quantità di danni.

Quindi non è detto che riusciremo a trovare un vaccino utile e sicuro.

E i farmaci antivirali? I farmaci antivirali sono forse un’opzione ancora peggiore.

Però, se oltre a tutte queste “possibilità”, riuscissimo ad attingere ad un farmaco antivirale presente nel nostro organismo, molto potente, capace di ottimizzare la nostra reazione, allora avremmo a disposizione un’altra opzione, quella di essere, attraverso l’alimentazione, nella condizione migliore per ottimizzare la risposta di risoluzione ed essere in grado di controllare la tempesta di citochine generata dal coronavirus che è uno dei principali elementi di letalità del virus.

Se ci si dovesse infettare di COVID-19, potremmo avere questi due possibili scenari:

  • se si beneficia degli effetti dell’immunonutrizione, è probabile che i sintomi siano più lievi;
  • al di fuori dell’immunonutrizione, ci potrebbero essere problemi più gravi: sintomi respiratori e necessità di ricovero ospedaliero a causa della Sindrome da Stress Respiratorio Acuto (ARDS) che è associata a quella tempesta di citochine di cui ho detto sopra, oltre che ad altri elementi oggetto di diversi studi.

Piuttosto che aspettare un vaccino miracoloso, o uno strabiliante farmaco antivirale, potremmo iniziare ad avere un atteggiamento proattivo, creando da noi stessi una maggiore protezione in caso di infezione.

Sembra tutto molto bello vero?

In effetti un aspetto meno simpatico esiste: ci vogliono 3-6 mesi affinché l’immunonutrizione porti l’organismo ad avere le capacità di gestione dell’infiammazione descritte sopra.

Questo significa un impegno importante, un impegno che durerà tutta la vita.

Un tale controllo però, da ottenere attraverso l’alimentazione, potrebbe essere davvero molto utile poiché il coronavirus è qualcosa con cui dovremo imparare a convivere.

Dobbiamo pertanto ottimizzare la risposta di risoluzione, lavorando sulla capacità interna dell’organismo di agire, anche se pare qualcosa che probabilmente abbiamo un po’ trascurato nel passato.

Ma lo possiamo fare ora se impariamo a trattare il cibo come se fosse un farmaco.

E questa risposta di risoluzione come può aiutarci nelle infezioni virali?

In primo luogo, aiutandoci nella prevenzione: nell’intestino abbiamo una barriera mucosa e delle giunzioni epiteliali strette (tight junction) che, se in efficiente stato, fanno in modo che sia più difficile essere vittima di attacchi virali per il semplice fatto che i virus non passano all’interno dell’organismo;

in secondo luogo, prevenendo la replicazione del virus attraverso l’attivazione di AMPK: il coronavirus ha bisogno, per diffondersi, di meccanismi che vengono compromessi con l’attivazione della AMPK.

Se però si viene infettati e si sopravvive, ci sono altri problemi da affrontare.

Uno di questi è la fibrosi che genera tessuto cicatriziale nei polmoni. Con una forte risposta di risoluzione se ne può ridurre la formazione, lasciandoci una qualità di vita migliore una volta guariti dal virus.

Ribadisco poi l’aspetto ancora più importante: la riduzione della tempesta delle citochine che sono la causa principale della mortalità del virus.

 Se poi vogliamo raggiungere l’immunità di gregge, dobbiamo anche spingere l’organismo a creare anticorpi: la produzione di anticorpi è incrementata se abbiamo più AMPK e se abbiamo potenziato la formazione degli anticorpi attraverso cellule presentanti antigene.

Bene, siamo arrivati alla fine di questa panoramica riguardante l’immunonutrizione.

Ho cercato di farti conoscere una serie di elementi che spero ti possano aiutare a mantenere il controllo dell’organismo e ad essere più forte in caso di infezione virale, rafforzando la risposta di risoluzione.

Spero potrai usarli per riflettere e magari compiere quel cambiamento che ti possa far vivere con meno patemi d’animo questo periodo complicato.

Stai attento pero…. È probabile che ci saranno sempre più nuove infezioni virali come effetto della globalizzazione o del cambiamento climatico: per sopravvivere, per star bene come società, dobbiamo rafforzarci e farci trovare pronti.

Alessandro

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